La punta scivola morbida, pochi rapidi tratti producono
figure leggere, vivaci, non ancora complete eppure già pronte ad andarsene, si muovono, si piegano, fanno leva sul nulla, si arrampicano verso il nulla e spariscono oltre il perimetro che le contiene,
in silenzio, prive dell’ombra e forse anche per questa ragione
furiose.
Tutto quello che cerco di dire mi viene da questi solchi,
fisionomie che si dilatano e si avvicinano fino a toccarmi, mi scrutano dentro per capire se sono vivo e convincermi, ora abbassando lo sguardo ora lo rialzandolo, additandosi, additandomi che il tema del doppio, di questo essere e non essere allo stesso tempo, del vuoto attorno al pieno, non è poi così importante
eppure
Ho il sospetto che questi segni sottili e flessibili, mutevoli come l’acqua abbiano trovato riparo e protezione da qualche parte,
come se a un certo punto in quest’era incerta e esasperata loro e poche altre specie avessero sviluppato la consapevolezza di poter sopravvivere, avendo trovato un habitat accettabile.
Per imporre un po’ di ordine e regolarità a questo mondo in movimento ho coperto l’opera con un drappo, ma nella sala tutti hanno continuato a girarci intorno incuriositi. Più tardi ho osservato tre collezionisti lottare strenuamente per aggiudicarsi qualunque cosa vi fosse celata sotto.
“In giro c’è un mucchio di denaro e una gran fiducia nel futuro”; il proprietario della casa d’aste si è detto
questa città nera e tortuosa s’è ingoiata il consorzio umano, le dico
è un coro di voci attorcigliato intorno a un unico stato d’animo che non abbandona mai la strada,
scende verso il mare alle prime luci dell’alba per risalirne al tramonto tirandosi dietro l’odore aspro e doloroso della malora, dell’affanno, della forza
di ricominciare.
Sulla banchina del porto appena inaugurato sono scese, per restare, due fanciulle.
L’ho notato perché da qualche tempo traffico coi numeri, perlopiù sequenze di due unità che compongo e suddivido in griglie per contenerne il vigore o impilo, le une sulle altre
(coi numeri automorfi ho quasi raggiunto l’astrazione).
E poi perché mi sento solo in questa esistenza fatta di sottoinsiemi non vuoti.
Erano attraenti con i loro occhi grandi, le bocche spalancate, i corpi minuti e una carineria a ogni costo che rendeva il tutto autentico e immediato. Di quell’incontro,
che ha segnato il culmine della mia capacità di dialogo con l’umano, resta una fotografia. Ho il naso asimmetrico, non me n’ero mai reso conto.
La cosa mi ha colpito. E’ da quel giorno che ci penso.
Sono adulto. Lo sono tuttora, curvo sui numeri e incorniciato dalla luce artificiale,
come il corista di una chiesa ortodossa, un orafo nella bottega paterna o un novello alchimista dedito al bistro leonardesco.
Intanto gli abiti delle mie amanti s’asciugano, appesi qua e là. Dondolano sospinti da una lieve energia spontanea e contestatrice che mi rassicura, mi consola e mi convince che la vecchia regola del bene rifugio