il giorno poggia
la bocca alla mia casa,
guancia di pietra.
Haiku #1-15
una giornata di forte vento, un foglietto
carambola attraverso la piazza
nelle mie mani
immolato sull’altare dell’amore
mi concedo alla malia del dolore
malato, predestinato, incompreso.
Felliniano. Possiede estro caricaturale
permette a una parola di mutarne il significato: felicemente
direi, tra l’immolarsi e il concedersi, o più in là
a sbarrare il mesto trittico.
Che l’insuccesso gli abbia dato alla testa?
un film, un flop, all’undicesima battuta:
“Io sono un pessimo amante, ma amo sempre meglio di te”
Dio, togligli la voce. La storia è monca.
Si dice che il Maestro usasse la noia come metro di giudizio:
E allora se lo tenga questo sentimento! Avrebbe urlato.
Per conto mio,
preferisco starmene alla larga.
Zero spettatori.
#18
La punta scivola morbida, pochi rapidi tratti producono
figure leggere, vivaci, non ancora complete eppure già pronte ad andarsene, si muovono, si piegano, fanno leva sul nulla, si arrampicano verso il nulla e spariscono oltre il perimetro che le contiene,
in silenzio, prive dell’ombra e forse anche per questa ragione
furiose.
Tutto quello che cerco di dire mi viene da questi solchi,
fisionomie che si dilatano e si avvicinano fino a toccarmi, mi scrutano dentro per capire se sono vivo e convincermi, ora abbassando lo sguardo ora lo rialzandolo, additandosi, additandomi che il tema del doppio, di questo essere e non essere allo stesso tempo, del vuoto attorno al pieno, non è poi così importante
eppure
Ho il sospetto che questi segni sottili e flessibili, mutevoli come l’acqua abbiano trovato riparo e protezione da qualche parte,
come se a un certo punto in quest’era incerta e esasperata loro e poche altre specie avessero sviluppato la consapevolezza di poter sopravvivere, avendo trovato un habitat accettabile.
Per imporre un po’ di ordine e regolarità a questo mondo in movimento ho coperto l’opera con un drappo, ma nella sala tutti hanno continuato a girarci intorno incuriositi. Più tardi ho osservato tre collezionisti lottare strenuamente per aggiudicarsi qualunque cosa vi fosse celata sotto.
“In giro c’è un mucchio di denaro e una gran fiducia nel futuro”; il proprietario della casa d’aste si è detto
assolutamente convinto.
#15
questa città nera e tortuosa s’è ingoiata il consorzio umano, le dico
è un coro di voci attorcigliato intorno a un unico stato d’animo che non abbandona mai la strada,
scende verso il mare alle prime luci dell’alba per risalirne al tramonto tirandosi dietro l’odore aspro e doloroso della malora, dell’affanno, della forza
di ricominciare.
Sulla banchina del porto appena inaugurato sono scese, per restare, due fanciulle.
L’ho notato perché da qualche tempo traffico coi numeri, perlopiù sequenze di due unità che compongo e suddivido in griglie per contenerne il vigore o impilo, le une sulle altre
(coi numeri automorfi ho quasi raggiunto l’astrazione).
E poi perché mi sento solo in questa esistenza fatta di sottoinsiemi non vuoti.
Erano attraenti con i loro occhi grandi, le bocche spalancate, i corpi minuti e una carineria a ogni costo che rendeva il tutto autentico e immediato. Di quell’incontro,
che ha segnato il culmine della mia capacità di dialogo con l’umano, resta una fotografia. Ho il naso asimmetrico, non me n’ero mai reso conto.
La cosa mi ha colpito. E’ da quel giorno che ci penso.
Sono adulto. Lo sono tuttora, curvo sui numeri e incorniciato dalla luce artificiale,
come il corista di una chiesa ortodossa, un orafo nella bottega paterna o un novello alchimista dedito al bistro leonardesco.
Intanto gli abiti delle mie amanti s’asciugano, appesi qua e là. Dondolano sospinti da una lieve energia spontanea e contestatrice che mi rassicura, mi consola e mi convince che la vecchia regola del bene rifugio
ancora funziona.
#14
l’attacco è incerto, un fill
lo splash nella seconda terzina,
in levare
nel giardino di suoni minimi
(uno studio senza finestre) coltiviamo
vibrazioni intollerabili
“c’è qualcosa di poroso
vergato di nero, una pignoleria
a tratti orientale”
la musa siede, immobile
gli occhi chiusi – i gomiti poggiati
sulle ginocchia
“allo stesso tempo dolce
aristocratico come il day after
di un bagno a mezzanotte”
e quell’ultima nota
un’esca lanciata in aria, in attesa
al termine della lenza
#12
Solomon smise di osservare
il dipinto nella sala fumatori
un attimo prima di annegare
andò a picco insieme agli alberi
carichi di mele, di pere d’oro
e fiammeggianti fiori esotici
dettagli vischiosi che la natura espone
al sole, alla pioggia, all’incuria
(conditio sine qua non per sentirci autentici)
i miei capelli, la pelle, le iridi
i colori si combinano tra loro,
amalgamati a freddo
decadimento e creazione, vi sono luoghi
che fioriscono in prossimità della loro fine:
un paradosso affascinante
#11
agglomerato di luce
semplicemente oscura
due luoghi differenti
la linea della vita segna
sul palmo la seconda tappa
e non s’estirpa, oltre
solo la felicità ostinata,
poggia i gomiti sul fotoromanzo,
si strugge e invoca
eroi irreali
(flâneur baudeleriani – irreali eppure credibili)
vagano intorno privi d’urgenza
qualcuno dipinge alberi:
un modo curioso di guardare l’orizzonte
seduti sull’erba, le braccia tese
# 9
c’è un palcoscenico antico di buio e luce
dove ogni giorno si mette in scena
uno spettacolo fenomenale:
la solitudine dell’entroterra
“quelle da ventimila euro
sono sculture potenti, visionarie
melagrane e grappoli d’uva lucenti,
ambizione di fertilità”
(quelle da novemila sono più piccole e in bronzo)
un po’ troppo per chi vive di questa terra aspra,
generosa solo quando vuole
è tutto qui – nel catalogo preso in prestito
da uno scaffale polveroso
# 8
in questa strada si perpetua
una migrazione misteriosa:
la nostra età non è compiuta
due grosse gocce d’acqua soffocano
la terra d’un affetto ingrato
(il deserto porta strani pensieri)
sfilano in silenzio in una processione di ombre
lisce capsule di laboratorio,
intenzioni cariche di sbavature
scarpe di varie fogge, il fruscio di stoffe nel vento caldo
(bella l’inquadratura)
spunta da sotto, dondola impercettibile e a tratti riluce
la canna d’un fucile
# 7
nella conversazione un gesto
spiega la caducità: il destino rovinoso
di ciò che è nato e ha goduto
almeno un istante della luce del sole
nell’apparente calma
di una tavola apparecchiata con belle porcellane e argenti lustri
atterra un pensiero e si ficca a metà
tra le pietanze
o più sotto, emerge dal fondo del mare come un pesce
a riprendere fiato; sorpresi
nel mezzo di quel gesto, congelati
qui, in questo punto
uno scheletro di stella polveroso
costringe a distogliere lo sguardo
dal vetro che divide il vuoto
dal vuoto
è un pensiero fasullo
(opera clandestina ferma alla dogana)
dai doganieri sarà distrutto
tra un minuto, vedrai
– a martellate
# 6