Questo è un lavoro impossibile dicevo, eppure me lo sono scelto. Più che scelto, credo di esservi scivolato dentro senza volerlo, come si rischia di scivolare nell’arte dopo un’infanzia popolata da troppi incubi e sogni. Da dove giungono le mie storie? Non da lontano. Osservo più che altro e mi premuro di collezionare qua e là qualche fotogramma che poi ingombro di piccoli particolari o avvolgo in atmosfere ordinarie o surreali. Il risultato è tanto insulso da farsi ricordare. Ma funziona.
Al numero 15 di via Belfanti c’è una casa a un piano, l’intonaco è appena intaccato dalle intemperie e le imposte sono semichiuse. Tutt’intorno un giardino ben curato dove sonnecchia a mezz’ombra un bel cespuglio di ortensie perfettamente azotate, da cui è appena emersa quella che immagino essere la Signora M.
La Sig.ra M. indossa il classico trittico da giardino, cappello-guanti-cesoie e un sorriso. Le iridi chiare attraversate da un brevissimo bagliore che, in mancanza di altri indizi, decido di tradurre come un cenno di cordialità.
“Le dispiacerebbe se le raccontassi una storia?”. La mia voce attraversa la recinzione che ci divide. E il bagliore risale la corrente.
L’alfabeto degli affetti
S’innamorarono alla vigilia della guerra, da cui entrambi uscirono illesi. Lui, un collaudatore d’aerei, alto e coi baffi alla moda, di quelli sottili che sparirono solo nel ’37. Lei, opportunamente desiderabile e sognatrice, era una di quelle donne che non smettono mai di sorridere.
Ogni giorno gli scriveva una lettera con una grafia aggraziata e sottile che lei riteneva essere particolarmente appropriata per stimolare l’attenzione di quel suo unico e singolare lettore. Si trattava per lo più di brevi cronache quotidiane e impressioni di vita collettiva fatte di uomini e donne messi insieme per l’occasione.
In cambio riceveva istantanee sovraesposte, cariche di una bicromia rovente, dolorosamente asfittiche e riarse dal bulbo solare, che lui scattava in volo, spesso con una mano sola.
La prima che le fu recapitata era completamente nera. Gli rispose con entusiasmo. Lo lodò per il tentativo di cogliere l’essenza delle cose trascendendo il particolare, avvertendolo tuttavia della necessità di percorrere anche altre strade per giungere là dove risiede l’infinita bellezza universale.
Ne seguirono tante altre a svelare in maniera sempre più audace le avventure di quell’uomo infilato nel mezzo di nuvole inconsistenti, conficcato in cieli sordi e nel fumo dei motori.
Inventarono così una specie di nuovo alfabeto degli affetti, che presto attirò l’attenzione. A chi la pregava di rilasciare una testimonianza di quei giorni lei faceva spallucce e rispondeva: “Oh! Ballava molto bene in effetti, ma faceva passi troppo grandi per me”.
La Sig.ra M. si attarda nel silenzio di chi conosce l’arte dell’ascoltare. Rincorre un suo pensiero, mi pare di capire. Poi si allontana verso il fondo del giardino, guardandosi intorno come se avesse smarrito qualcosa. Quando riappare reca con sé un fiore. Una dalia dice. La dalia si dona come gesto di riconoscenza, buon gusto e per esprimere gratitudine. Si sposta di nuovo. La serratura del cancello scatta. La Sig.ra M. è in strada, mi si avvicina e mi abbraccia.
“Ora vada” dice, “ho voglia di sfogliare uno dei miei album. E questa è una cosa da fare soli”.
Abbinato a questa storia:
Album fotografico rilegato in pelle marrone anticata con copertina rigida e dorso con nervetti. 60 fogli avorio con velina. La finitura con cera naturale dona al cuoio una straordinaria morbidezza risaltandone la nuance bruna.
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